In maniera quasi del tutto spontanea l’immagine sollecitata nella nostra mente dalla parola educazione è quella della scuola. È, effettivamente, vero che l’Istituzione scolastica rappresenta il perno dell’agire educativo nella nostra società poiché propone azioni mirate a sostenere la piena realizzazione della persona fin dalla sua infanzia, accompagnandola nel suo sviluppo, offrendo occasioni di interazione sociale e contribuendo al raggiungimento di autonomia, mentre agisce sugli apprendimenti durante tutto l’arco della vita dell’individuo.
Altrettanta verità la riscontriamo nell’idea che mentre la scuola si adopera e agisce nel suo lavoro, si cimenta nel dialogare con altri soggetti che si impegnano nell’educazione della persona, quali, primo fra tutti la famiglia.
Questa seconda istituzione è di per sé una forma di società in miniatura nella quale il bambino si ritrova inserito e apprende stili e culture che a sua volta poi rappresenterà negli ambienti esterni e dunque anche in quelli scolastici.
La persona in quanto individuo partecipa nella vita quasi sempre con i caratteri peculiari del suo ambiente familiare; la famiglia a sua volta è parte di un ambiente circoscritto, di una comunità che ha usi e costumi e che più o meno possono essere condivisi dalle persone, ma che comunque richiedono un certo adeguamento a determinate regole e strutture necessarie al mantenimento di un sistema sociale.
L’essere umano cresce nella famiglia facendo esperienza dell’insieme dei “costumi” di questa e si modella sull’esperienza appresa al suo interno, ma dove questa è a sua volta in qualche modo strutturata sulle categorie relazionali della società nella quale è inserita. Dunque l’individuo che si sviluppa entra contemporaneamente in relazione con i soggetti esterni e con il contesto di riferimento; è in questo processo di dare e avere fluido che si configura lo scambio involontario tra micro-sistemi e prende forma in modo del tutto naturale quello che definiamo il vissuto ambientale. (Barone, 2020) Le istituzioni scolastiche, ma anche gli spazi della città, i luoghi di apprendimento non formale, sono ambienti partecipativi e partecipati dall’esperienza dell’individuo che si appresta a intrecciare relazioni e accrescere il suo essere anche grazie all’ampliarsi di questo scambio.
L’essere umano è per sua natura un essere sociale che si realizza nelle relazioni e negli elementi che rendono concreti gli scambi oggetto dell’attenzione pedagogica. Tale attenzione è percorso necessario per riflettere e promuovere azioni che facilitino un sentire educante che deve assolutamente appartenere alla dimensione sociale e non deve limitarsi alla sola infanzia, quanto piuttosto estendersi a tutto l’arco della vita dell’individuo.
Lo sguardo pedagogico offre una lettura della realtà nella sua complessità, spalancando opportunità e nuove prospettive, valorizzando l’individuo e accompagnandolo a realizzare le proprie competenze e autonomie. Ecco che a noi interessa prendere in esame gli aspetti fondanti il processo di apprendimento dell!individuo, non soltanto a livello formale e sul piano strettamente scolastico, ma anche per quanto concerne la sua crescita “trasversale”, la sua trasformazione e formazione che lo renderanno partecipe del processo creativo della società.
È opportuno riflettere sulle azioni educative affinché siano favorevoli occasioni di risposta ai principi dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, in modo da riportare il bambino al centro dei percorsi scolatici e delle esperienze pensate per il suo sviluppo.
Ma vista la premessa fin qui fatta, appare chiaro come per potersi prendere cura dei più piccoli, diventa necessario, prendersi cura di tutti quei soggetti che ruotano attorno alla loro crescita. È presuntuoso parlare con onestà di “bambino al centro”, se vengono trascurate azioni rivolte al resto della comunità educante: dobbiamo tornare a prenderci cura degli insegnanti, del personale scolastico, dei coordinatori e di tutti coloro che operano attorno allo sviluppo dei piccoli.
Il mio compito in chiusura di questo evento è quello di fornire l’occasione per riflettere sulla sostanza della “cura educativa”, approfondendo il valore insito nel significato di questa parola. Senza la pretesa di impartire lezioni, né modificare pensieri, vorrei offrire l’opportunità di comprendere come questa scienza si prenda cura contemporaneamente del sociale e di ciascun individuo e a tale opportunità ci arriviamo dopo aver assaporato le diverse relazioni dei colleghi che ci hanno già permesso di entrare nella dimensione pedagogico clinica.
Il ben-essere, lo stare bene, affonda le sue radici nel tempo lento e nella cura dell’esistenza, partendo dalle domande che ogni individuo si pone, dai perché rivolti a se stesso e per se stesso, ma anche da là dove la persona, in quanto cellula sociale, viene a trovarsi, cioè in quella dimensione di dialogo con l’altro essere.
I pedagogisti clinici affermano, attraverso la loro scienza e i valori cui fanno riferimento per sostenere l’evoluzione e lo sviluppo della società, che per aiutare la persona a fronteggiare le sue difficoltà, è fondamentale che questa si prenda cura di sé, che l!individuo riscopra l!importanza di “aver cura con ogni cura” – come sostenuto da Protagora – aspirando alla ricerca del bene. Il padre dell’arte maieutica, Socrate, al quale anche la nostra scienza si è ispirata ampliando la ricerca e dando vita alla Nuova Maiuetica, sosteneva che è compito dell’educatore sollecitare nella persona la “cura sui” affinché l’individuo possa sbocciare (Mortari 2017, p. 98).
Ricevere cura significa sentirsi accolti dagli altri nel mondo e aver cura significa ampliare le relazioni che sono la matrice vivente del proprio essere nel mondo. Un proposito, dunque, quasi un’utopia, fare della pratica dell’aver cura la preoccupazione primaria in ambito sociale, politico ed educativo affinché sia possibile perseguire un mutamento della condizione dell’esistenza umana.
Già nell’antica Grecia la cura, definita poi come cura sui, era compito non solo dei filosofi e degli educatori, ma anche di coloro che si occupavano della politica. In seguito è stato riscontrato dagli studiosi come la cura appartenesse all’ambito educativo in quanto percorso di guida rivolta alla cura di sé e solo successivamente si è arrivati alle riflessioni proposte da Haiddeger, il quale propone quale fondamento primario dell’essere la condizione di trovarsi inserito nel mondo e che solo in funzione di ciò l’essere realizza la sua essenza.
Dunque per la Pedagogia Clinica la cura è un!azione primariamente educativa e non è da confondersi con la cura medica il cui impegno è di lenire sofferenze, sanare anomalie di un corpo che presenta carenze funzionali. Aver cura di sé nel valore educativo, è tensione al ben-essere ad un darsi forma che la persona persegue pur nel suo essere non statica; la persona infatti non è forma data, ma è un continuo mutamento.
Prendersi cura dell’esistenza vuol dire stabilire un rapporto etico ed estetico con il proprio tempo, ovvero far pace con il nostro passato e proporsi con sguardo fiducioso verso il futuro; è in questa ottica che ci concediamo alla riflessione, condizione necessaria per poter concretamente vivere il presente.
Se riflettiamo su quanto Seneca sosteneva, vedremo come egli ritenesse che la forma peggiore di incuria fosse non dare valore al tempo della propria esistenza. Questo accade quando viviamo il presente senza riflessione, senza ricercare in esso possibili direzioni di senso. L’essere umano è immerso nella categoria temporale e prendersi cura della vita equivale a dare forma al tempo, regalando ad esso in un certo senso la categoria spaziale. Con tale riflessione non voglio dire che se manchiamo di aver cura del tempo, esso non prenda forma comunque; il fatto stesso di esserci rende reale di conseguenza la rete delle relazioni che strutturano il nostro ambiente che va a modellare comunque la nostra identità pur se questo esserci è scarsamente riflessivo. Ma lasciarsi vivere in questo stato di semi-coscienza avulso da un progetto di vita è un modo di essere poco autentico e somiglia molto ad un atteggiamento di passività in cui ci lasciamo agire da forze a noi estranee.
La cura è sempre cura di sé e come tale è auto-formazione dell’individuo e pilastro della relazione educativa. Prendersi cura è dunque responsabilità verso il tempo della vita, delle possibilità di esistenza che donano autenticità alla propria presenza nel mondo. (Mortari, 2006 p. 9)
Imparare ad aver cura di sé equivale a coltivare il desiderio di tendere continuamente ad una forma di arte del vivere, necessaria allo scopo di farci scoprire la nostra forza migliore. Ecco che troviamo l’assunto dell’educazione: coltivare nell’individuo la passione per la cura di sé, ovvero sostenerlo nel percorso di costruzione degli strumenti cognitivi ed emotivi necessari a delineare in modo autonomo il proprio percorso.
Parlare di cura in educazione e all’interno di questa conferenza è per me, in quanto Pedagogista Clinico®, lo spazio per sollecitare le riflessioni circa la comunità educante: tutti siamo responsabili delle azioni che si ripercuotono nella società, dunque tutti siamo responsabili dell’attenzione che rivolgiamo a noi stessi, perché quel microscopico movimento che attiviamo ci sposta da dove siamo e ci fa avanzare verso l!altro, innescando nel contempo un’azione di reciprocità.
La Pedagogia Clinica mette al centro del suo agire la persona, in quanto unica e gemma preziosa, aiuta la relazione e la sostiene, sollecita l’individuo a scoprirsi “persona” in seno alla relazione Io-Tu.
L’impegno con il quale ci siamo proposti al Comune di Prato è quello di facilitare un cambiamento che sia sollecitazione per il singolo e che a sua volta lo conduca ad adoperarsi in quanto parte di una comunità.
Il singolo è, come hanno più volte ricordato anche i miei colleghi, sempre cellula sociale, unico e reale in quanto si sviluppa proprio in seno alle relazioni.
Quanto fin qui detto non deve dimenticare di sottolineare anche come la cura di sé dunque, se pur compito che il soggetto si assume, non si può perfezionare da soli.
Esiste sempre l’imprescindibilità dell!altro in quanto siamo esseri intimamente relazionali. Le relazioni danno significato al nostro essere anche nella dimensione della cura (Mortari 2017, p. 95).
Esserci, esistere, è sempre un trovarsi nel mondo, è premura di un tempo che accade ma che al contempo è tempo condiviso. La pratica dell’aver cura è relazionale: la responsabilità esistenziale che ci vede inseriti nella pluralità, ci indica anche come responsabili di questo agire soggettivo. Esistere implica che l!essere appartenga con il suo esistere al mondo e da senso al curare. In tale ottica la cura sui è il fondamento della buona riuscita per una reale cura dell!altro, il primo passo per poter successivamente aprirsi al Tu (Fabbri 2023, p. 54).
Far parte di un tessuto sociale non deve intendersi come processo di omologazione, piuttosto come opportunità per dare voce alle singole identità, apportando un contributo attraverso gli scambi relazionali.
È quindi compito di ciascuno impegnarsi verso se stesso e verso la comunità in quanto tutti facciamo parte di un sistema sociale che si condiziona attraverso la relazione, ma, in special modo, maggior impegno sarà da richiedere a coloro che ruotano attorno alle istituzioni, ai professionisti dedicati all’aiuto alla persona. Essi sono chiamati ad una maggiore attenzione, a competenze profonde finalizzate a rendere disponibili azioni concrete di cura della società. Affinché questo si realizzi, l’educazione deve abitare gli spazi che le appartengono, e competere principalmente a coloro che la veicolano.
Mi appariva sensata l’immagine del quadro di questa giornata: differenti persone, differenti ruoli, diversificate azioni, ma tutti siamo qua con uno scopo comune, avere cura dei luoghi, esaminare proposte, concentrarci sulle persone. Per farlo possiamo partire da noi stessi, da ogni piccola azione, solo così potremo attuare il cambiamento che auspichiamo. Affermare che l!esserci è cura significa affermare che non si è indifferenti e distratti, ma che ci “preoccupi-amo”, cioè abbiamo a cuore il nostro modo di esistere (Mortari, 2006, p. 4).
In questo contesto non è permesso lasciare spazio all’emarginazione, legittimando atteggiamenti disumani e creando solitudine. La Pedagogia Clinica agisce con cura educativa prendendo le distanze da un impegno rieducativo incasellato e standardizzato. Tale scienza mette piuttosto in atto azioni che muovono dall’accoglienza e alimentano armonia: si interfaccia con i soggetti che dimostrano inciampi e che si presentano carenti di risorse necessarie a destreggiarsi nelle problematiche sociali, non trascurando di prestare attenzioni a ciò di cui dispongono nell’ambito sociale in cui vivono (famiglia, scuola, comunità…) allo scopo di fornire risposte mirate a migliorare e sollecitare le abilità del soggetto ma anche dell’ambiente in cui egli vive.
L’azione con la quale sono impegnata nel mio lavoro pedagogico clinico sollecita e facilita un cambiamento partendo dall!equilibrio e dall!armonia del soggetto singolo, che riscoprirà così il valore delle proprie potenzialità sostenendolo nella sua realizzazione attraverso la relazione Io-Tu che diviene Noi, e aprendolo dunque alla realizzazione dell’esistenza sociale pur conquistando la propria autonomia e unicità.
Bibliografia:
Barone L., a cura di (2020). Manuale di psicologia dello sviluppo. Carocci Editore,
Roma.
Fabbri L. (2023). Pedagogia Clinica . Autenticità di una scienza, Armando Editore, Roma.
Mortari L. (2017). Educatori e lavoro di cura. Pedagogia oggi. 15 (2), 91-105.
Mortari L. (2006). La pratica dell!aver cura, Bruno Mondadori, Milano.
Mottana P., Campagnoli G. (2018). La città educante. Manifesto della educazione diffusa. Come oltrepassare la scuola. Asterios Editore, Trieste.
Pesci G., Mani M., (2021). Pedagogia Clinica . La scienza distintiva della professione di Pedagogista Clinico®, Omega Edizione, Torino.
Pesci G. (2022b). Pedagogia Clinica e cellula sociale. Pedagogia Clinica – Pedagogista Clinico®. 47 (2), XXIII.